Francesca Lerario, Managing Director Southern Europe di Ogury, offre alcuni consigli per sopravvivere alla fine dei cookie a fini pubblicitari.
La fine dei cookie a fini pubblicitari è alle porte. Da anni Google rimanda la loro eliminazione, e anche se non si conosce ancora la data precisa, sappiamo che avverrà nella seconda metà del 2024. Sarà l’inizio di una nuova era dell’advertising, in cui i brand non potranno più contare sui dati di terze parti. È arrivato il momento di prepararsi seriamente all’ADmageddon, al post apocalisse dei cookie, quando il tracciamento pubblicitario basato sull’identificazione personale non sarà più possibile.
In un contesto in cui non mancano soluzioni indipendenti da identificatori (ID unificati, targeting contestuale, semantico, e cohort), i brand faticano ad avviare la transizione verso tecnologie cookieless e idless.
Da dove partire? Ecco quattro consigli su come orientarsi e affrontare un futuro senza cookie.
1) Non aspettare Google
Gli inserzionisti devono evitare di cadere in due tentazioni: l’attesa e la sospensione. Per prima cosa, non dovrebbero lasciarsi cullare da un falso senso di sicurezza circa il rinvio dei cookie da parte di Google, anzi. Occorre che valutino un nuovo metodo di advertising che fornisca risultati tangibili senza la comodità del tracciamento personalizzato, che lede la privacy e viene mal visto anche quando gli utenti forniscono il consenso.
Dall’altra parte, i brand non possono mettere in pausa le pianificazioni aspettando Google. Sarà per loro importante continuare a raggiungere clienti potenziali ed esistenti, ma diventerà sempre più complesso a meno che non si stiano già raccogliendo grandi quantità di dati di prima parte. In questo nuovo mondo digitale, infatti, i consumatori detengono tutto il potere e possono supportare o distruggere un brand in un batter d’occhio. Inoltre, i regolatori stanno aggiungendo restrizioni a una legislazione sulla privacy dei dati già stringente.
2) Non replicare tecnologie basate sugli ID
Molte soluzioni basate sugli ID unificati sono state sviluppate negli ultimi anni, ma la loro debolezza risiede nel non avvalersi della scalabilità fornita dai cookie: sono isolate, non possono essere interoperabili e richiedono ancora il consenso degli utenti, che è sempre più difficile da ottenere poiché rifiutato in massa dagli utenti stessi. Gli ID unificati si basano su una rete specifica di editori che non vogliono condividere i dati dei loro utenti, il che rende la loro portata estremamente limitata e non adatta allo scopo.
Un ulteriore ostacolo arriva dall’impostazione Private Relay sui dispositivi Apple e sul browser Safari che cripta le connessioni e nasconde gli indirizzi IP e i dati di navigazione degli utenti, rendendo impossibile la riconciliazione di un indirizzo IP con un ID univoco da parte di terzi. Questo comporta la perdita di un’enorme parte di consumatori, dato che i dispositivi Apple rappresentano la quota di mercato più ampia a livello globale, pari al 28%.
3) Non limitarsi al targeting contestuale e semantico
Molti inserzionisti hanno cercato una soluzione alternativa nel targeting contestuale e semantico, ma questo metodo non rappresenta la panacea del settore, in quanto cerca di prevedere chi sta guardando una pagina o un’app in base al contesto di quella stessa pagina, anziché in base agli interessi specifici degli utenti. In questo modo non consente ai brand di avere una reale comprensione del proprio pubblico, né di riuscire ad incrementarne l’engagement.
Ad esempio, immaginiamo che l’Utente A stia scorrendo la sezione Sport del suo sito web di notizie preferito. Un semplice sguardo a quella pagina lo classificherà come un appassionato di sport, il che significa che gli verranno continuamente mostrati annunci relativi a questo ambito. L’Utente A potrebbe effettivamente essere un appassionato di sport, ma poche persone hanno un solo hobby…
Il targeting contestuale e semantico non tiene conto degli altri interessi dell’Utente A, che potrebbero fornire preziosi insight ai brand. Oppure, cosa succederebbe se l’Utente A possedesse un cane, ma non visiti mai siti web dedicati agli animali domestici? I brand vogliono raggiungere audience che hanno bisogno dei loro prodotti, anche se non visitano siti web specifici per quegli interessi. Questi “appassionati nascosti” sono virtualmente impossibili da individuare, considerando solo il bassissimo numero di persone che visitano siti web dedicati ad argomenti settoriali.
4) Non cohort, ma personas
La pubblicità basata sulle cohort (o coorti) guidata da Google Topics, che sostituisce l’originale Federated Learning of Cohorts (FLoC), ha obiettivi più nobili rispetto al targeting contestuale e semantico. Raccogliendo la cronologia di navigazione degli utenti sui siti web e le app che hanno visitato, va ad analizzare il loro comportamento per trovare argomenti generali, catturando tendenze collettive a livello aggregato. Ma l’utilizzo delle coorti implica comunque la raccolta di informazioni sugli utenti senza chiedere il loro consenso – il che, come abbiamo visto, è sempre più considerato socialmente inaccettabile oltre che invasivo.
Al contrario, il personified advertising non traccia mai il comportamento online di un singolo individuo, ma guarda alle destinazioni – ai siti, alle app – dove le “personas” sono maggiormente inclini ad accedere ai contenuti di loro interesse. Ed è qui la differenza: se le coorti si basano su cosa gli utenti fanno online, il personified advertising chiede agli utenti, con il loro consenso, le informazioni per conoscere intrinsecamente “chi andrà dove”.
In pratica, come avviene tutto questo? Torniamo al nostro Utente A, che sappiamo essere quasi-appassionato di sport. Il personified advertising è in grado di comprendere profondamente i suoi interessi, consentendo ai marketer di fargli domande come “Sei interessato al fitness a bassa o ad alta intensità?” o “Quante volte alla settimana ti alleni?”. Tali domande vengono sottoposte sotto forma di sondaggi ai quali gli utenti possono scegliere di rispondere, e non solo su siti sportivi. I questionari determinano quali siano gli altri interessi dell’Utente A, oltre allo sport. Questo metodo fornisce una conoscenza approfondita, spostando il focus dall’utente alla destinazione, accumulando decine di milioni di punti dati per definire migliaia di diverse personas.
Non c’è più alcun dubbio: la pubblicità basata sui cookie ormai appartiene al passato. I brand dovrebbero prepararsi a superare metodi insufficienti, come gli ID unificati, il targeting contestuale, semantico e cohort, guardando invece alle personas per trovare una soluzione veramente resistente al futuro, scalabile e non invasiva.